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SUBSONICA 11/01/03

Ok, fino all'ultimo ..

Ok, fino all'ultimo in Casasonica a mixare la nuova sigla di Patchanka, la trasmissione del pomeriggio ripetuta dal network di radio Poloplare, poco tempo per fare la valigia al volo, smadonnare perché le cose che servono quando servono di corsa giocano sempre a nascondino e via sul taxi per l'aeroporto. Destinazione Londra - Camden town - Randalph street: the Exchange, lo studio dove seguirò il mastering di "Controllo del livello di Rombo".

Questa volta il grande Mike Marsh ci sarà e non ci troveremo con un tecnico-riservista come per l'ultimo mastering. Parto con la solita Elena della Mescal, anche lei trafelata poiché appena rientrata da Tunisi e decolliamo con il comodo volo notturno. Nello zaino "Emilia Parabolica" di Massimo Zamboni, acquistato in libreria al volo per il viaggio. All'aeroporto di Stunsted incontreremo Marco Capaccioni che ha deciso di aggregarsi per venire a ficcare un po' il naso all'Exchange e per supervisionare il tutto. Ha lui i vari master e backup del caso. Viaggia con il frutto di cotanto lavoro custodito in valigetta nera dai bordi metalizzati, modello portavalori a cui manca giusto la catena da polso. So che saprebbe uccidere chiunque osasse insidiarla. Appena arrivati in albergo, verso l'una di notte, ora locale, leggiamo subito la notizia della sera riguardante una presunta cellula terroristica sorpresa in un appartamento nord - londinese - giusto giusto dove ci troviamo - in possesso di non meglio specificate sostanze tossico-nocive. La notizia si rivelerà una bufala il giorno successivo (come tante altre diffuse ad hoc per creare panico e consenso sulla guerra) ma sul momento ci guardiamo come per dirci: "beh, sogni sereni, allora". 
Ci svegliamo con la neve. Detto così non fa effetto, tranne che per il fatto che a Londra ci risulta non nevicasse da una dozzina di anni. 
Colazione. Taxi. Studio.
Su un vecchio diario di bordo risalente al Dicembre del 2001 ho già descritto ampiamente the Exchange e non mi dilungherò oltre, ma a questo giro, sentendomi un po' più in confidenza con l'ambiente, faccio più caso all'atmosfera e ai ragazzi che ci lavorano. Piuttosto giovani e dall'aspetto parecchio sveglio, con abbigliamento trasandato di derivazione più hip hop-techno-drum'n'bass che non rock. E difatti i suoni che provengono dalle differenti sale sono molto elettronici e pulsanti. C'è un clima molto rilassato, amichevole e per nulla formale. Un po' stupisce sapere che molti nomi altisonanti sono passati da quei corridoi con vecchi divani sgualciti, in una città che ha tendenze piuttosto sofisticate ed eleganti quando non monumentali in fatto di music biz. Comunque mi piace sapere che il nostro sound passa anche da lì.
Arriva Mike Marsh, saluta, rompe il ghiaccio parlando della neve (mazzalo, come mi è venuta questa!) chiede se vogliamo un the o un caffè e ci introduce nell'oramai solito studiolo. Mike fa un primo ascolto di tutta la prima facciata e appunta diligentemente i titoli in italiano. Poi incomincia a smanettare. Io mi rilasso perché tanto so che in quella stanza, senza nessun accorgimento acustico, ci può capire qualcosa solo lui. Marco impallidisce, esattamente come me la prima volta, io sghignazzo.
Il metodo di lavoro di mr. Marsh, ovvero colui che ha masterizzato Chemical, Massive, Prodigy, Depeche Mode etc etc, consiste in una comparazione costante tra i pezzi già trattati e quelli ancora in fase di mastering con un alternanza talmente rapida da mandarti fuori di testa. Questo procedimento fa sì che i brani abbiano una fluida continuità di suono. Rimaniamo lì una dozzina di ore mentre il tecnico intervalla i brani con un "it sounds pretty good!" attendendo la nostra levata di pollici.

Usciamo verso le dieci e trenta di sera e tentiamo una sortita nella china town londinese per cercare ristoranti aperti. Al termine un minimo di passeggio digestivo e poi in albergo a sprofondare.

Nuovamente svegli alle nove e nuovamente in studio, rivediamo alcune cose del giorno precedente e finiamo la parte di mastering per concentrarci sui tagli tra i brani. Optiamo per la continuità, legando i brani l'uno all'altro e riducendo le presentazioni al minimo. Un "live" di flusso senza tante menate autocelebrative, tutto incentrato sulla musica. Del resto anche nei concerti le presentazioni sono spesso unicamente funzionali ai cambi di suono e per dirla tutta non sono nemmeno da scolpire nella pietra ad imperitura memoria. La scaletta simula un concerto virtuale. Nel senso che i brani non sono stati eseguiti in quell'ordine ma seguono un criterio ben preciso. Il primo lato più intimamente subsonico, con brani piuttosto dilatati, tesi e martellanti - ovvero un aspetto che solo chi frequenta i concerti conosce molto bene - e l'altro più groovoso, aperto ed improntato sulla dance. 

Ad un certo punto sentiamo la stanza tremare a mo' di sisma, probabilmente per il passaggio di un treno della metro: d'istinto chiedo a Marco: "hai lasciato una copia in studio di tutti i mix?" e lui mi risponde che sì, certo che l'ha fatto, che non si sa mai. Realizzo che in tutte le ipotesi di disgrazie di qualsiasi tipo la mia reazione è sempre stata "boh, se deve accadere accada e arrivederci!", tranne quando c'era in ballo la musica. Allora mi sono sempre premunito (anche quando della musica che facevo non poteva fregare di meno a nessuno) di fare in modo che non potesse andare persa in alcun modo, anche piantando giù corna su corna ipotizzando le peggio disgrazie. Uno dei pochi pensieri adulti anche quando ero pischello pischello. 

Ad ogni modo, questi erano i pensieri sonnolenti e sprofondati nel divano di Randalph street in Camden Town. Alla fine della giornata lavorativa, con le orecchie fuse per i volumi tenuti da Mike, dò un appuntamento ad un amico d'infanzia da tempo diventato una specie di banchiere o mega manager della city. Strade ovviamente molto diverse le nostre da quando avevamo formato il primo complesso, ma un grosso piacere nel ritrovarci. Lui mi racconta della sua fidanzata russa fotoreporter di guerra, della sua preoccupazione per l'imminente partenza per l'Iraq, io gli racconto un po' di fatti miei e con Marco ed Elena dopo un po' di birre ci divertiamo a raccontare a turno i passi e le motivazioni che ci hanno portati a vivere nella musica. Ricostruzioni spassose di ingenuità accompagnate da volontà ferree. Mi fa venire in mente una frase letta una volta su Label. "L'ingenuità è la forza che fa avverare i sogni" o qualcosa di simile. A sentire tutti i nostri resoconti mi accorgo di quanto sia vero.
Ad un certo punto Marco si alza e va a chiacchierare con un capellone seduto al tavolo vicino. Si tratta del bassista di una band di Manchester, conosciuto in quel di Arezzo Wave. Il suddetto bassista ci invita ad un concerto dei suoi amici Jackie O in un pub di Camden, lì a pochi passi. Ci andiamo. Il cartellone prevede diverse band sul palco, difatti sul marciapiede incrociamo variopinti personaggi che spingono carrelli da supermercato pieni di chitarre effetti e amplificatori. Il locale è un pub, ma da una porta sul retro, che fatichiamo un attimo a trovare, si può salire una scala e accedere alla sala concerti. Inglese in tutto e per tutto. Buia, fumosa, moquettata impregnata di odori stantii e trasudante rock'n roll. Dei Jackie O devo aver letto qualcosa che non ricordo sulle riviste italiane. Sono un trio con sezione ritmica femminile e personaggio maschile con ciuffone e chitarra semiacustica al microfono. Suonano piuttosto male, scordati e parecchio fuori tempo, davanti ad una cinquantina di persone la metà delle quali impegnata a chiacchierare e tracannare birra, ma il tutto risulta coinvolgente.

Magie britanniche. Ovviamente tra le poche persone presenti una ragazza con taccuino, una manager (di Badly D. Boy) e tutto ciò che permette ad una formazione squinternata fotografata in un evento tutt'altro che indimenticabile di far parlare di sè in tutto il mondo. Se penso al culo che si devono fare le giovani formazioni rock nostrane, per riuscire ad avere un minimo di continuità nelle proprie passioni, per poi essere spesso snobbate dal cervellone di turno che decreta troppo mainstream le band che devono riuscire a suonare davanti ad almeno qualche centinaia di persone a sera giusto per sopravvivere, mi scappa un po' da ridere. Penso ai loro concerti, alla compattezza necessaria ad affrontare ogni genere di palco, alla qualità necessaria per emergere in un Italia piuttosto pigra nei confronti di certe sonorità, e trovo il tutto un po' ingiusto.

Penso anche ad esempio a come mi piacevano i Jesus and Mary Chain e però a che pacco insostenibile fossero dal vivo. Penso invece alla concretezza di Vedena, One dimentional man, Perturbazione e tanti altri pronti ad essere crocifissi da qualche fenomeno solo perché aderiscono a festival giudicati eccessivamente "popolari" come il Tora tora e capisco da dove nascono i molti handicap della nostra scena musicale.
Sono completamente fuori tema, come mi succedeva alle medie. Abbandoniamo Jackie O mentre il cantante sull'ultimo pezzo rotea la semiacustica in feed-back, si vede che vorrebbe romperla ma evidentemente non ritiene l'evento sufficientemente all'altezza e risparmia la sua bella Gibson semi-acustica (io ringrazio poiché, benché storico fracassatore di Fender, non avrei retto allo strazio) e guadagniamo l'uscita. Elenamescal è già rientrata in albergo, il mio amico ha un aereo andata e ritorno in giornata per Milano a causa di qualche riunione delle sue e io e Marco dobbiamo decidere che fare. Freddo fa freddo, stanchi siamo stanchi. Ganci non ne abbiamo. Decidiamo di considerare Londra una piccola Città di Castello e di farci un bel giro, alla peggio ci perderemo in chiacchiere come al solito. Taxi. Soho. Soho è un quartiere piuttosto turistico, pieno di locali. Londra di questi tempi è spenta (se paragonata a se stessa anche solo un paio di anni fa), viene da pensare che l'imminenza della guerra e il conseguente clima di preoccupazione influiscano non poco.

Comunque ad un certo punto passiamo di fronte al Barrumba. Notiamo una discreta coda d'ingresso, ci incuriosiamo, leggiamo drum'n bass e in cima all'elenco dei set "Grooverider". È fatta. Di lì ad un quarto d'ora siamo già in pista, incuranti della sveglia impietosa che ci consentirà il giorno dopo di visitare alcuni studi indipendenti, incuranti della nostra condizione di quasi quarantenni che da stasera guadagnerà una nuova definizione. "Sai Marco tra non molto saremo piuttosto quarantenni, ma io anziché quarantenni quarantenni, ci definirei quarantenny, con la y. Come la vedi?"


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