Un po’ di chiacchiere giusto per il piacere di farle. Gli anni ottanta che ho vissuto in tempo reale sono quelli che vanno grossomodo dal 77 all’83. Il sorprendente primo album omonimo dei Violent Femmes arriva ad abbassare definitivamente il volume ad una new wave che stava giusto spegnendo il proprio fuoco sacro, autocelebrandosi all’ombra dei ciuffoni imbrillantinati e soffocando sotto troppi strati di cerone. Gruppi come i primi Ultravox (con J.Foxx), Siouxsie, i primi Talking heads, Brian Eno, Clock d.v.a., Trobbing gristle, Bauhaus, Killing joke, Joy Division, Japan e molti altri sono stati la mia mappa indelebile e quei suoni lì, quelle suggestioni, continuano ad emozionarmi. Ora come allora.
Detto ciò concordo con Wu Ming 1 sulla percezione di fastidio profondo che, lungo tutta la decade provavamo al contatto con il suono-lobotomia e per tutto ciò che suonasse estraneo a uno stile di vita "totalizzante" legato alla musica, ai suoi linguaggi, alle sub culture.
Riconosco ancora adesso una forma di purezza nel percepire la musica fatta o vissuta, come “rotta di sopravvivenza”, mezzo di identificazione, codice di decifrazione del mondo. Il mainstream e l’underground in questo senso avevano pochi punti di contatto.
Riguardo all’Italia, scorrendo la lista presentata dall’articolo del W.Ming, aggiungerei alcune realtà e ne ridimensionerei decisamente altre(per esperienza diretta e collaborazioni sul campo), ma sono piuttosto d’accordo sul senso di quanto espresso.
La scena era molto più ridotta di ora, non che questo fosse necessariamente un male: bastavano pochi concerti di fronte a qualche centinaia di appassionati un buon articolo su rockerilla o sulle attivissime “fanze” per sentirsi parte di qualcosa che succedeva veramente. La qualità delle cose non dipende certo dai “numeri” e lo spirito di allora era forte. Direttamente proporzionato alle difficoltà e alla mancanza di spazi.
Mi sento invece assai meno nostalgico rispetto ad una caratteristica dell’epoca, appena sfiorata nell’articolo.
Questo sentirsi completamente identificati nel mito delle correnti che dai linguaggi sonori traevano la propria origine, era da un lato manifestazione di intensità e di forte attitudine, dall’altro con il passare del tempo, una sorta di autolimitazione.
Il visualizzare e il presidiare costantemente una linea di confine invalicabile tra il mondo delle contro-culture e la bambagia dei consumi ha certamente fortificato esperienze, favorito la nascita di luoghi e di strutture indipendenti. Ha fatto decollare l’autoproduzione (quella vera, che diventava circuito e anche distribuzione), la conquista di spazi che anni più tardi diventeranno un fenomeno culturale importante identificato nei centri sociali, l'approccio creativo radicale necessario per la nascita di germi importanti.Sotto un altro aspetto però la linea di demarcazione diventava troppo spesso il paravento, anche comodo per giustificare anche alcune evidenti carenze espressive. Spiego meglio: fatta eccezione per molte band che sono arrivate a confrontarsi con i circuiti internazionali (a Torino: Negazione e Indigesti prima, Sick Rose, in Italia molti altri), fatta eccezione per i C.c.c.p (a mio avviso a tutt’oggi il gruppo più importante che abbiamo mai avuto) tra i pochi a cimentarsi con l’italiano, oppure alcune band della prima ondata come Neon, i(primi) Diaframma e qualcos'altro che inevitabilmente mi sfugge, della scena musicale anni ottanta non rimane poi molto, che non somigli a quanto già meglio espresso all'estero. Intendo: evaporata l’attitudine, il ricordo molto preciso di tutta un’atmosfera, il gran darsi da fare……
Quel confine al di là del quale ci si sporcavano le mani, al di là del quale c’era la “grande cospirazione” che voleva che in Italia la musica “cessa” si sentisse ovunque e che quella “buona” invece non potesse avere spazi, annullando di conseguenza anche l’imbarazzo della presa di coscienza sul fatto che molte esperienze artistiche fossero magari semplicemente mediocri, in realtà era un argine. Che aspettava forse semplicemente di essere abbattuto. Con più forza o con più volontà nel cercare un confronto. Io ricordo perfettamente molti “scienziatelli”, dell’epoca dare addosso ai Ferretti e Zamboni perché si svendevano cantando in italiano. Roba da matti a ripensarci. E così via con il sempreverde vizio di piangersi addosso, di visualizzare congiure, cospirazioni discografiche e mafie (un grande classico in Italia, un argomento che funziona quasi sempre, tranne ovviamente che con i mafiosi veri).Insomma qualsiasi cosa che sollevasse dalla responsabilità di dare un obiettivo giudizio su ciò che realmente si stava producendo.
Queste parole sono anche in parte un’autocritica. Conosco la sensazione per averla vissuta direttamente e per averci successivamente riflettuto.
Mi capitò di lavorare e di vivere per due mesi a stretto contatto con un orchestra cubana, di andare in Jamaica a suonare il reggae, di finire in Magreb sulle tracce del pop rai. Di capire in definitiva che altrove la musica popolare aveva confini molto meno rigidi e che poteva essere nobile, intrigante, musicalmente sperimentale, e di ampia condivisione al tempo stesso. Era la lezione degli anni novanta.
Dieci anni prima, una qualsiasi forma di esposizione al di fuori dei circuiti ritenuti opportuni, poteva passare per un vero e proprio tradimento. Ma gli stessi circuiti talvolta erano percorsi iniziatici per pochi degni adepti. Un atteggiamento, una sfumatura poco conforme ai canoni ed eri fuori.
Insomma in quel clima forse non sarebbe nata nemmeno una realtà importante come quella di Luther Blisset,di Wu-Ming, anche se di certo dalla cultura di quegli anni ne nascono molti presupposti.
La nuova letteratura in Italia è attualmente, a mio parere, proprio un felice esempio di esondazione. Oltre al talento, alle idee è stata messa in gioco anche la volontà di confrontarsi con tutte le forme di linguaggio. A volte anche con elementi raccogliticci e popolari in senso basso. Con le scorie. E' stata finalmente tentata anche una ampia divulgazione, indispensabile per evitare di predicare ai semplici convertiti. Chiunque può venirne in contatto e quello che c’è di buono è che in molti lo fanno per davvero. E a me piace e ne sono un felice spettatore.
Ovviamente non mancano i detrattori, ma risulta anche sempre più evidente a chiunque la natura capziosa e frustrata di certe posizioni oziose e rancorose.
Per tornare invece al gioco del Boosta e del suo Iconoclash (io degli artisti originali salvo praticamente solo Garbo),siamo sicuri che non sia poi così diverso dal gusto di chi, cambiando settore-pur rimanendo in ambito "colto"- arriva oggi a rivalutare, per esempio i vari Vanzina, Alvaro Vitali, Gianfranco D'angelo, (io francamente non ce la posso fare), l’Abbatantuono più vintage etc. etc..?
Vorrei vedere però Wu Ming 1 fare un articolo su Duel dove venga contrapposto il revival di una deteriore commedia all’italiana con che ne so:… cortometraggi di Nespolo, pieni di uomini col borsello che si grattano la barba durante i vernissage di “arte povera”, sul suonodi un solo "free" di sax contralto. Sostenendo magari (e pure a ragione) che quella all’epoca era strenua resistenza allo sterco culturale della massificazione. Penso che non lo farebbe mai. E meno male.
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